IN INDIA
Bangalore -India - Novembre 2017
Praveenkumar è diverso da tutti gli altri motociclisti che sfrecciano sulle strade perennemente intasate di mezzi di ogni genere. Lui non corre, è molto prudente e suona il clacson soltanto quando è veramente necessario. In mezzo a quel marasma di auto, tuk tuk, bus, camion, e motociclette, ogni tanto si vede qualche pazzo che pedala su una bicicletta, e penso "Lo farei anch'io". Ritrovarmi sulla motocicletta di Praveenkumar, è una di quelle sorprese che hanno caratterizzato questa mia prima settimana in India. Fino a questa mattina sapevo che lui mi avrebbe accompagnato alla fermata dell'autobus e che mi aspettava un'ora di viaggio per arrivare a Hoodi. Prima mi aveva portato nel suo ufficio e mentre lui digitava qualcosa sul suo computer, il mio sguardo fissava un foglio attaccato alla parete che parlava di pratiche per la conservazione dell'acqua. Dopo una manciata di minuti, Praveenkumar si alzò dalla scrivania, prese un casco anche per me e me lo allungò. Dopo una serie di curve e un paio di chilometri su di un rettilineo, si fermò nuovamente, e indicandomi l'insegna di una bottega, mi disse che quello era il suo posto preferito. Dietro il bancone c'era un ragazzo che continuava a spremere frutti di ogni genere. Praveenkumar prese un succo di melone ed io arancia e carota. A quel punto lui mi disse che mi avrebbe accompagnato fino a Hoodi, ed io tirai un sospiro di sollievo. Mi sentivo al sicuro con lui, così iniziammo il nostro viaggio.
Vedo la mia immagine riflessa
sulla parte posteriore del casco di Praveenkumar, e provo come un senso di
vertigine nel vedere la mia faccia stampata, quasi fissa, in quella specie di
specchio, mentre le immagini sembrano dei proiettili che ti piombano addosso,
quasi sovrapponendosi, come in un film tridimensionale. Qui in questa parte del
mondo la realtà supera la fantasia. E' un continuo alternarsi di fossi, tubi,
fogne a cielo aperto, street food, uomini sudici sdraiati per terra, circondati
dai rifiuti. Colori, odori e rumori che ti sovrastano come gigantesche onde. I
colori dei tradizionali costumi indiani che scivolano via come fiumi in piena,
l'odore dei gas di scarico che si scontra con l'olezzo degli street food e la
puzza di fogna che danza attorno a montagne di rifiuti. Scheletri di case
appena abbozzate e chissà da quanto abbandonate, si alternano a tuguri e
distese infinite di baraccopoli. Poi improvvisamente all'orizzonte appaiono
file di grattacieli simili a giganti dall'espressione incredula. Di tanto in
tanto chiudo gli occhi, mi lascio portar via dal vento e ripeto a me stesso
"Sto sognando!".
Mucche dappertutto, cani randagi
che dormono sui cumuli di terra ai bordi della strada. Finalmente Praveenkumar,
dopo quasi quaranta minuti di corsa, mi indica un edificio con un campo da
gioco dove si intravedono gruppi di bambini. Probabilmente è quello
l'orfanotrofio. Penso a stamattina quando ero indeciso se portare o no il mio
computer dove avevo preparato giochi, video, canzoni e quant'altro per le
attività da svolgere coi ragazzi. Ma lo lasciai in camera perché lo zaino era
troppo ingombrante e pesante. Però avevo con me la chiavetta usb dove avevo
scaricato lo stesso materiale. Avrei trovato sicuramente sul posto qualche
altro computer, magari anche un proiettore.
Nel frattempo Praveenkumar dopo
aver chiamato Guru, il responsabile del campo, si è allontanato dal posto che
mi aveva indicato. Insomma, non riesce a trovare il punto in cui dovevamo
incontrarci con Guru. Dopo una serie di telefonate, il tipo spunta da un sentiero
in mezzo ai cespugli. Praveenkumar prosegue in motocicletta, io invece seguo a
piedi Guru. Non è una strada ma un misto di fango e terriccio. I cespugli sono
spariti e tutto intorno è un susseguirsi di baracche circondate da cumuli di
spazzatura e altri materiali indefinibili. Di tanto in tanto s'intravedono
gruppi di uomini e donne che armeggiano sulla roba accatastata. Mentre la
motocicletta del mio amico scoppietta e salta su e giù da avvallamenti di terra
per evitare la fanghiglia, comincio a domandarmi dove diavolo stiamo andando.
Improvvisamente appare una tendopoli. Intravvedo delle donne in abbigliamento
tipicamente locale e a piedi nudi che si aggirano là intorno. Passo davanti
alle tende. Un misto di mattoni, eternit, e grandi teli di plastica blu che
ricoprono il tetto. Vedo degli uomini all'interno. Sento qualcosa di molto
forte che pulsa nel mio petto. "Siamo arrivati!" dice Guru. Alzo gli
occhi e vedo due giovani donne davanti all'ingresso di una baracca ricoperta da
eternit di metallo.
Praveenkumar mi dice che le donne
sono le insegnanti e che parlano poco inglese. Io mi presento e loro mi fanno
cenno di entrare. Faccio un passo all'interno della baracca e improvvisamente
sento il cuore schizzare come uno stantuffo in gola. Una ventina di minuscoli
bambini dagli occhi neri appuntiti coi piedini scalzi e sudici, seduti su di
uno stravecchio tappeto di canapa, urlano "Good morning Sir!". Questa
volta stavo sognando veramente, oppure ero finito per sbaglio nel set
cinematografico di uno di quei film tipo "Non uno di meno". Ma lì
c'erano almeno i banchi. Qui c'è soltanto una vecchia e malandata lavagna. Non
faccio in tempo a rendermi conto della situazione che una delle due donne mi
porge il gesso e mi fa cenno di iniziare. La mia fronte già gronda di sudore.
Incrocio lo sguardo di Praveenkumar e sollevo le spalle come a dire "Cosa
faccio adesso?". "Alphabet!" mi suggerisce lui.
Da quel momento capisco che Praveenkumar
è il mio angelo custode. Mi lancio verso il mio zaino, tiro fuori i fogli con
le figure e le lettere dell'alfabeto inglese e inizio la mia prima lezione.
Tutti gli occhi di quei bambini sono su di me. Sembrano delle miniature. Alcuni
di loro sono bellissimi, con uno sguardo arguto e penetrante. Mostro la figura
e la lettera, chiedo ai bambini di ripetere ad alta voce la lettera e il nome
della figura, poi ripetiamo tutti ad alta voce e infine scrivo lettera e nome
alla lavagna, dicendo a loro di scrivere la stessa cosa sul quaderno. Tutto
questo fino alla zeta in un crescendo di urla. Mi rendo conto che quelli più
distratti e che fanno tutt'altro, quando c'è da urlare si uniscono con energia
al coro. Sono bambini dai 3 anni ai 10, alcuni talmente minuti che sembrano dei
pupazzetti. Quelli un po' più grandi sono seduti davanti, proprio vicino a me,
e seguono e ripetono con molta attenzione, altri sembrano avere a che fare con
altri problemi.
Un bambino continua a piangere, si
stringe un piede con la mano, forse si è fatto male ma poi capisco che è
vulnerabile e viene continuamente sopraffatto dagli altri. Un altro bambino coi
capelli tutti arruffati e l'espressione indiavolata, ha la bocca attaccata alla
lavagnetta che stringe tra le mani e con la lingua continua a leccare il gesso
che vi è impresso sopra. Alla fine della mia lezione, la camicia è inzuppata di
sudore ma sembrano tutti soddisfatti. Mi seggo su di un sasso e seguo la
lezione in Kannada, la loro lingua locale. Guardo incredulo le pareti di metallo
ondulato stratificato di polvere, mentre i bambini continuano a picchiarsi tra
di loro. Schiaffi in piena faccia. C'è di mezzo sempre quello che leccava il
gesso e quell'altro che prima piangeva per il piede.
Arriva l'ora del pranzo e un
bidone con la pappa. Il compito è mio. I bambini in fila con la ciotola di
metallo in mano ed io col mestolo a distribuire il pasto. Quelli più minuscoli
tornano per il bis e alcuni addirittura con due ciotole. Dopo il pranzo, fuori
a giocare in mezzo alla terra e alle baracche. Alcune bimbe saltano sulla
corda, mentre i più infuriati si rotolano su di un montarozzo di terra
indurita, come quello che c'era nel mio quartiere quand'ero bambino. Salto
sulla motocicletta di Praveenkumar e i bambini tutti in coro urlano "Good
by Sir!". Il cuore non è ancora sceso dalla gola, anzi pressa sempre di
più, e proprio in quel momento mi accorgo di avere gli occhi pieni di lacrime.